(traduzione di Massimo Introvigne)
Sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787) nasce a Napoli nel 1696. Di famiglia nobile, ha per padre il capitano di una galera reale napoletana. È uno studente brillante che fa grandi progressi in tutti i tipi di studi. Può dipingere con maestria e a tredici anni è già un maestro del clavicembalo. Il suo primo libro è una raccolta di poesie. A sedici anni riceve la laurea in legge dall’Università di Bologna. È così piccolo che sparisce nella sua toga da dottore e tutti gli astanti ridono.
Inizia quindi una carriera da avvocato, e a diciannove anni gestisce il suo primo caso da solo. È straordinariamente abile ed efficace, e a 26 anni è considerato una delle stelle del Foro di Napoli. È scelto nel 1723 dal Duca di Gravina per rappresentarlo in una causa contro il Gran Duca di Toscana relativa a una proprietà dal valore di due milioni di marchi. Di fronte al tribunale Alfonso pronuncia una brillante arringa e si siede al suo posto sicuro della vittoria. Ma l’avvocato di controparte risponde in tono gelido: “Ha sprecato il fiato. Ha trascurato un documento che distrugge tutto il suo caso”. E presenta un documento che Alfonso conosce e ha letto molte volte, interpretandolo secondo le leggi di Napoli. Ma il suo oppositore sostiene che va interpretato secondo le leggi della Toscana. Ha ragione: e la sconfitta prostra il giovane Alfonso. Lascia il tribunale esclamando: “Mondo, ora ti conosco. Tribunali, non mi vedrete più”.
Con l’orgoglio profondamente ferito da questo duro colpo alla sua carriera, si chiude in casa per tre giorni e rifiuta il cibo. Quindi comincia a vedere che l’umiliazione gli è stata mandata da Dio per staccarlo dalla carriera e dai successi, che lo hanno portato a trascurare la preghiera e le pratiche di pietà che erano state parte integrante della sua giovinezza.
In questa situazione Alfonso sente una chiamata divina. Depone la toga da avvocato e si dedica agli esercizi di pietà e alle opere di carità. Il 28 agosto 1723 mentre esce da un ospedale si ritrova circondato da una luce misteriosa. Sente la terra tremare sotto i piedi e una voce interiore gli dice: “Perché esiti a lasciare il mondo e a darti tutto a Me?”. L’episodio si ripete due volte.
Alfonso lascia l’ospedale ed entra in una chiesa consacrata alla redenzione dei prigionieri. Depone la sua spada ai piedi della statua di Nostra Signora della Misericordia e fa voto solenne di diventare sacerdote. Supera la forte opposizione del padre, rinuncia ai suoi diritti di figlio primogenito, e comincia a studiare teologia a casa sua. È ordinato sacerdote il 21 ottobre 1726, all’età di trent’anni. Per sei anni sviluppa un intenso apostolato di predicazione e di missioni al popolo, rivolto particolarmente alle classi povere delle aree rurali. Più tardi, seguendo il consiglio di un vescovo, fonderà la Congregazione del Santissimo Redentore, l’Ordine dei Redentoristi. Per i successivi venticinque anni viaggia per tutte le province del Regno delle Due Sicilie in continue missioni, ottenendo grandi successi.
Nella seconda parte della sua vita, quando la fatica e le infermità gl’impediscono di continuare il lavoro missionario, concentra i suo sforzi sulla scrittura, che vede come un modo di continuare l’attività pastorale. I suoi scritti si fondano sull’esperienza acquisita confessando migliaia di anime e sono offerti alla sua Congregazione come orientamento pratico per il sacramento della Penitenza. Così inizia la sua opera nel campo della teologia morale.
Nel 1747 il re delle Due Sicilie Carlo (poi Carlo III di Spagna, 1716-1788) gli propone di diventare arcivescovo di Palermo. Ma Alfonso rifiuta. Nel 1762 un ordine formale del Papa gli impone di accettare l’episcopato di Sant’Agata dei Goti, una piccolo diocesi vicina a Napoli. Riforma la diocesi che era caduta in uno stato deplorevole, e sfugge perfino a più di un tentativo di assassinio. Ma alla fine è la sua salute declinante che gl’impedisce di continuare. Un tremendo attacco di gotta lo lascia semi-paralizzato fino alla fine dei suoi giorni. La testa gli si piega in modo così acuto che la pressione della pelle gli provoca ferite sul petto. Può celebrare Messa solo seduto su una sedia. Ma, nonostante queste infermità, la Santa Sede non gli permette di lasciare la diocesi se non nel 1775, all’età di 79 anni.
Si ritira in un monastero del suo ordine preparandosi per la morte, che crede imminente. In realtà dovrà aspettare altri undici anni. Cieco e sordo, ma ancora lucido, vive gli ultimi anni su una sedia a rotelle. È così malato da ricevere nove volte l’Estrema Unzione. È tormentato nel fisico e nel morale, perché è angosciato da preoccupazioni sul futuro del suo Ordine e anche – alla sua veneranda età – da assalti del Diavolo contro la sua castità. Muore pacificamente nella Casa Madre dei Redentoristi a Pagani (Salerno) il 1° agosto 1797, all’età di novant’anni.
Questa lunga e operosa vita offre vari spunti di meditazione.
Primo: se guardiamo allo stato attuale della teologia morale notiamo come i progressisti aborrano Sant’Alfonso de’ Liguori perché era molto preciso nel fissare le esigenze morali. Poiché il progressismo è per sua natura lassista, fa quello che può per boicottare Sant’Alfonso. È una ragione per noi per venerarlo con speciale zelo.
Secondo: è interessante notare il contrasto apparente fra le carriere di Alfonso e di suo padre. Quest’ultimo era il capitano di una galera reale napoletana, un uomo abituato a comandare sia i marinai sia i condannati al remo, incatenati alla nave. Questi uomini – criminali le cui pene consistevano nel dover remare sulle galere – erano spesso in cerca dell’occasione buona per ribellarsi, consegnare l’equipaggio della nave ai nemici di turno ed evadere. Comandare una galera richiedeva un’autorità ferrea. Questo era il lavoro del padre di Sant’Alfonso.
Apparentemente il figlio era molto diverso. Suonava il clavicembalo, dipingeva e scriveva poesie, il che potrebbe farlo apparire come fragile e delicato. Ma in realtà nelle fasi successive della sua vita dovrà sopportare carichi molto più pesanti di quelli del padre.
In terzo luogo, la causa che delude così profondamente il giovane avvocato Alfonso e finisce per causare la conversione è una disputa intricata fra due sistemi di leggi feudali diversi. Le leggi dell’Ancien Régime erano diverse da uno Stato all’altro. Ma questi problemi ci sono anche oggi quando un processo coinvolge diverse nazioni, e anche oggi in genere prevale la legge del luogo dove è situata la proprietà. Il caso di Alfonso coinvolgeva le leggi del Regno di Napoli e quelle della Toscana. L’oppositore del futuro santo, pensando che avrebbe perso secondo le leggi di Napoli, chiese che si applicassero quelle della Toscana. Questo argomento rovesciò il brillante caso che Alfonso aveva preparato. Con questo episodio Alfonso vide la fragilità delle cose umane. Era giovane e aveva una visione idealistica della giustizia e dei tribunali.
Quarto: Alfonso era un giovane nobile, e brillante. I suoi successi lo avevano reso attaccato alle cose mondane e avevano attenuato la sua pietà. Spesso una brillante carriera porta una persona a perdere il suo amore per le cose di Dio. Dio vede questa fiacchezza spirituale e decide di colpire la carriera di quella persona per convertirla. È questo che accade ad Alfonso. Capisce che molti suoi amici lo lusingano a causa della sua condizione nobile e del suo talento legale. Ma sceglie di rinunciare a tutte le cose mondane. Quanto spesso abbiamo bisogno di simili avvertimenti di Dio per dedicarci alla causa contro-rivoluzionaria e perseverare in essa! E felici coloro che non hanno bisogno di questi castighi di Dio!
Quinto punto: è bello vedere come la prima cosa che Alfonso fa dopo avere deciso di offrire la sua vita a Dio è entrare in una chiesa e deporre la sua spada ai piedi della Madonna. È un nobile e, quando un nobile depone la spada, questo gesto simboleggia la sua rinuncia al mondo perché un nobile non si presenterebbe mai di fronte al mondo senza la sua spada.
Sesto: rinuncia pure al suo diritto di primogenitura. Il discorso storico e giuridico è complesso, ma in realtà l’abitudine delle famiglie prima della Rivoluzione Francese di lasciare la parte maggiore della loro fortuna e l’eventuale titolo nobiliare al figlio primogenito era saggia. Era l’unico modo di evitare che gli enormi sforzi di tante generazioni si disperdessero dividendo la proprietà fra numerosi fratelli e sorelle, e di permettere a ogni famiglia di continuare il suo cammino nella storia. Questa era la missione del primogenito, che però aveva anche la responsabilità di aiutare i fratelli, le sorelle e i loro figli. Era un altro fattore che teneva la famiglia unita intorno al primogenito e conferiva stabilità all’istituto familiare. Non c’è bisogno di dire che la Rivoluzione Francese, appena poté, abolì con gioia il diritto di primogenitura.
Settimo punto: non è un caso se Sant’Alfonso sceglie di consacrare più di venticinque anni della sua vita a predicare al popolo più umile. Nel Settecento il clero era afflitto da una grande mancanza di zelo e rilassatezza dei costumi. La Chiesa aveva molte proprietà e beni, e i preti potevano avere molto facendo poco. Molti sacerdoti preferivano stare in città e partecipare alla vita sociale. La popolazione delle aree rurali e di montagna era spesso abbandonata dal clero. Nell’Italia Meridionale le campagne erano spesso infestate da bande che prefiguravano la Mafia. Molti erano rozzi e ignoranti, la vita era difficile e sgradevole. E il clero cercava di sfuggirla. Il popolo conservava quasi ovunque buone abitudini e buona volontà, ma era l’ignoranza delle cose della religione che causava seri rischi di perdita delle anime.
Sant’Alfonso, chiamato da Dio ad abbandonare tutte le cose splendenti del mondo da cui è circondato, si comporta all’opposto di quel clero. Va a cercarsi per predicare e prendersi cura di loro i più umili e i più poveri, i più modesti contadini, le persone meno istruite del Regno delle Due Sicilie. Questo ci mostra come Dio spesso chiama una persona a fare il contrario di quello che si è affezionata a fare.
Ottavo punto: l’Ordine dei Redentoristi fondato dal santo nasce dalla preoccupazione che questo semplice popolo sia di nuovo abbandonato dopo la sua morte. E anche se Alfonso aveva convertito uno, due o diversi villaggi molti altri ancora attendevano la missione. Era necessario fondare un ordine di sacerdoti che continuasse il suo lavoro. Un ordine orientato a predicare continuamente la Parola di Dio alle persone semplici.
La vita del sacerdote redentorista è molto bella. La regola ne fa un predicatore itinerante, che non dovrebbe rimanere in una località per più di due mesi. Quindi, di tempo in tempo, si ritira in una casa della congregazione e ci resta dieci o quindici giorni in silenzio, praticando austerità e penitenze. Questo fa da contrappeso alla sua predicazione di successo. Dopo questo ritiro è mandato in un’altra località e continua la sua opera. È un sacerdote sempre itinerante, che non può sviluppare un attaccamento alle cose del mondo ma deve concentrarsi sulla predicazione continua della Parola di Dio.
Nono punto: Sant’Alfonso era chiamato a essere un intellettuale, un grande moralista, un Dottore della Chiesa. In questi primi venticinque anni della sua opera non sapeva tutte queste cose. Si preoccupava solo di fare del bene al popolo. Sarà però questo contatto che gli darà la sua incomparabile conoscenza dei problemi concreti e quotidiani della gente. Questa inestimabile esperienza gli fornirà gli elementi per esaminare obiettivamente i problemi della morale cattolica.
Anche i suoi studi giovanili di diritto lo avevano preparato a diventare un grande moralista perché come tutti dovrebbero sapere il diritto richiede la morale come sua spiegazione più profonda. Dobbiamo notare che il primo scopo di Sant’Alfonso non era scrivere trattati, ma fornire un orientamento pratico ai sacerdoti della sua congregazione per risolvere i problemi morali delle persone comuni.
Così, la sua vita ha diverse fasi che preparano il futuro moralista. È meraviglioso vedere nella vita di tanti santi come la Divina Provvidenza intaglia con mano maestra le loro anime per preparare il compimento della loro missione. Spesso il santo stesso non se ne rende conto e solo in Paradiso comprenderà perché la sua vita si è svolta in un certo modo. Questo è il caso di Sant’Alfonso.
Decimo punto: consideriamo la tremenda sofferenza di Sant’Alfonso negli anni finali della sua vita. Gli effetti della gotta lo obbligavano a vivere tutto rannicchiato, con il collo così piegato sul petto da causargli una dolorosa ferita. Seguono undici anni su una sedia a rotelle con tutti gli inconvenienti che questo presenta.
Era un grande santo, un vescovo, un Dottore della Chiesa, un grande moralista, il fondatore di un ordine religioso. Con una vita così piena, nonostante tutto è ancora tormentato dalle tentazioni alla fine della vita. Non soccombe a esse, ma Dio gli chiede di combatterle fino alla fine. Solo al momento della morte la pace è tornate nella sua anima.
Vi offro un aneddoto finale della sua vita per la vostra edificazione. Negli ultimi anni, quando era costretto sulla sedia a rotelle, un fratello lo portava fuori nel chiostro per prendere un po’ d’aria. Un giorno chiede al fratello: “Non ricordo, abbiamo finito la recita delle tre parti del Rosario?”.
Il fratello gli risponde: “Non me lo ricordo neanch’io, ma di sicuro siamo arrivati almeno fino al tal mistero”.
Allora Sant’Alfonso comincia a recitare i misteri che non è sicuro di aver già detto.
Il fratello protesta: “Ma Padre, voi siete dispensato dalla recita completa per ragioni di età e di salute”.
Risponde Sant’Alfonso: “Se non recitassi tutto il Rosario tutti i giorni avrei timore per la salvezza della mia anima”.
È una nota d’oro per terminare la meditazione su una vita d’oro. Chiediamo a Sant’Alfonso de’ Liguori di proteggere tutti noi, e di proteggere quel popolo semplice che oggi come ai suoi tempi rimane ignorante e abbandonato a causa dei cattivi sacerdoti, vescovi e prelati progressisti.