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Gli studi e le pubblicazioni su Enrico V, conte di Chambord (1820-1883), si sono moltiplicati in questi ultimi anni, a mano a mano che sono esaminate e utilizzate le sue carte (una ventina di casse, che si credevamo perdute) emerse dall’Archivio di Stato di Lucca, dove erano state depositate dalla principessa Beatrice di Borbone Massimo (1874-1961), nipote del cugino – e secondo alcuni successore – di Enrico V, Giovanni III di Borbone (1822-1887). La principessa Beatrice aveva ereditato nel 1931 il castello di Frohsdorf, sito a 34 chilometri da Vienna, dove Enrico V aveva passato la maggior parte della sua vita. Il castello – che oggi appartiene alle Poste austriache – fu saccheggiato nel 1945 dall’Armata Rossa sovietica, ma non tutto è andato perduto e altri documenti, oltre a quelli di Lucca, stanno gradualmente emergendo.
Questi ritrovamenti hanno spinto alcune famiglie che detengono nei loro archivi privati documenti essenziali a metterli a loro volta a disposizione degli storici. Sulla base delle carte di Lucca Daniel de Montplaisir, storico che lavora presso l’Assemblea Nazionale francese, di religione protestante, ha prodotto una monumentale biografia di Enrico V, di 735 pagine: Le Comte de Chambord. Dernier roi de France (Perrin, Parigi 2008). Tra le trouvaille recenti, la più notevole è il diario di Enrico V, emerso da un archivio familiare e pubblicato dallo storico e giornalista Philippe Delorme come Journal du Comte de Chambord (1846-1883) - Carnets inédits (François-Xavier de Guibert, Parigi 2009). La seconda opera completa e illustra la prima – benché Montplaisir e Delorme siano divisi nelle simpatie dinastiche su chi siano oggi i legittimi successori al trono di Francia –, mentre non apporta grandi elementi complementari l’ulteriore biografia Le Comte de Chambord: Henri V di Georges Poisson (Pygmalion, Parigi 2009), caratterizzata da una notevole antipatia per il protagonista e per la causa cattolica alla cui difesa Enrico V consacrò tutta la vita. Va piuttosto segnalato come utile fonte aggiuntiva il sito www.comtedechambord.fr, che ha tra l’altro il merito di proporre le biografia anche dei più fedeli collaboratori negli anni dell’esilio.
Seguirò qui la biografia di Montplaisir – che non ha natura apologetica, dal momento che l’autore non condivide tutte le idee di Enrico V, ma che costituisce a mio avviso a tutt’oggi la migliore e più completa introduzione alla figura del principe – per riassumere la vita e le idee di un personaggio cui si deve riconoscere un ruolo essenziale nella storia dell’Europa del XIX secolo, della Chiesa Cattolica e della scuola cattolica contro-rivoluzionaria. Come nota giustamente Montplaisir, Enrico V è il primo monarca – anche se il suo regno è durato, a rigore, poche ore – di cui si può dire che non solo ha realizzato un programma politico, ma ha elaborato un pensiero, attraverso scritti non sistematici ma di cui «l’insieme costituisce una summa piuttosto coerente e soprattutto unica nella storia: mai un monarca aveva lasciato una tale eredità dottrinale (…). Enrico V è il solo re di Francia ad avere elaborato un progetto politico, quasi un programma» (p. 346).
Così pure, se altri principi hanno certo operato per la Contro-Rivoluzione, Enrico V si è sentito esplicitamente parte della scuola cattolica contro-rivoluzionaria. Montplaisir segnala l’influenza decisiva sul principe delle opere di Joseph de Maistre (1753-1821), che è alle origini di tale scuola, e di Antoine Blanc de Saint-Bonnet (1815-1880), autore a sua volta decisivo per il passaggio di questa scuola – secondo l’espressione di Giovanni Cantoni – da una fase «patristica» a una «scolastica», e che al dire del biografo «ha profondamente segnato lo spirito del principe» (p. 351). Nato e morto negli stessi anni di Blanc de Saint-Bonnet, il vescovo di Poitiers e dal 1879 cardinale Louis-Édouard Pie (1815-1880) è anch’egli una figura decisiva per il passaggio dalla «patristica» alla «scolastica» contro-rivoluzionaria, ed è anche uno dei più ascoltati amici e confidenti di Enrico V, su cui ha una «influenza determinante» (p. 350), radicata in una profonda «identità di vedute» (ibidem).
Il programma di Enrico V è cattolico e contro-rivoluzionario nella sua essenza. «Qualche volta – dichiara nel 1871 – mi si chiede quale sarà il mio programma. È molto semplice. È il Vangelo nella sua purezza, senza toglierne un solo iota, perché ho la convinzione profonda che il Vangelo è il codice dei governi così com’è quello degl’individui» (ibidem). E nel 1878 aggiunge: «Sì, l’avvenire è degli uomini di fede, ma a condizione che siano anche uomini di coraggio, che non abbiano paura di dire in faccia alla Rivoluzione trionfante quello che essa è nella sua essenza e nel suo spirito, e alla Contro-Rivoluzione che cosa deve essere nella sua opera di riparazione e di pacificazione» (p. 565). E la Rivoluzione «nella sua essenza» è il tentativo di perseguire «l’ideale di uno Stato senza Dio, cioè contro Dio» (ibidem).
La nascita di Enrico V è percepita da molti come un miracolo. Il primo figlio del re Carlo X (1757-1836) – fratello minore dei re Luigi XVI (1754-1793) e Luigi XVIII (1755-1824), e re di Francia dal 1824 al 1830 –, Luigi Antonio, duca di Angoulême (1775-1844), sposa la cugina Maria Teresa di Francia (1778-1851), figlia di Luigi XVI e unica componente della famiglia di quest’ultimo a essere sopravvissuta alla Rivoluzione. Ma i due coniugi non hanno figli, né ne aveva avuti Luigi XVIII. Le speranze di un erede per i Borboni si concentrano dunque sul figlio minore di Carlo X, Carlo Ferdinando, duca di Berry (1778-1820). Dal matrimonio di quest’ultimo con la principessa Carolina delle Due Sicilie (1798-1870), figlia del re Francesco I delle Due Sicilie (1777-1830), nasce nel 1819 una figlia, Luisa (1819-1864: sarà tra l’altro la nonna dell’imperatrice Zita di Borbone-Parma,1892-1989, moglie dell’imperatore d’Austria Beato Carlo d’Asburgo, 1887-1922). Ma in Francia le donne non possono ascendere al trono. Il 13 febbraio 1820 il duca di Berry è assassinato all’Opéra di Parigi da un operaio bonapartista, Louis Pierre Louvel (1783-1820), che spera così di estinguere la dinastia. Ma la duchessa Carolina è incinta, e l’Europa trattiene il fiato: nascerà un maschio? Alle due del mattino del 29 settembre 1820 la duchessa grida dalla sua camera del Palazzo delle Tuileries a Parigi. «Venite, presto, è Enrico! » (p. 42), con riferimento al nome che si è convenuto di dare all’eventuale erede maschio, cui è pure riservato il titolo di duca di Bordeaux.
La corte si aspetta obiezioni e sospetti dalla branca «orleanista» della famiglia reale francese, rappresentata dai figli di Luigi Filippo II d’Orléans (1747-1793), il principe che – dopo essere stato eletto Gran Maestro del Grande Oriente della Massoneria francese nel 1771 – aveva aderito alla Rivoluzione francese cambiando il suo nome in “Philippe Egalité” e, eletto deputato, aveva votato a favore della condanna a morte del cugino Luigi XVI, il che non lo aveva salvato dall’essere a sua volta ghigliottinato nel 1793. Gli “orleanisti” – che, almeno secondo la loro interpretazione, in assenza di un discendente diretto maschio di Carlo X diventerebbero i legittimi eredi del trono di Francia – diffondono in effetti il sospetto che il piccolo Enrico non sia davvero il figlio della duchessa di Berry. Ma il taglio del cordone ombelicale è avvenuto di fronte a testimoni, fra cui un rispettato militare di formazione bonapartista, al di sopra di ogni sospetto, il duca di Albufera (Louis-Gabriel Suchet, 1770-1826), il quale si dichiara «più sicuro del fatto che il duca di Bordeaux sia il figlio della duchessa di Berry di quanto non sia sicuro del fatto che mio figlio è figlio di sua madre» (p. 44). Nonostante questo, gli orleanisti continueranno a diffondere dubbi e sospetti per decenni.
L’entusiasmo in Francia e in tutta Europa è alle stelle. È nato un figlio del miracolo, la prova che la Provvidenza veglia ancora sui Borboni e sulla Francia. Le iniziative in onore del duca di Bordeaux si moltiplicano: fra queste la creazione da parte dell’industria tessile di un nuovo colore, chiamato «bordeaux» in onore del piccolo principe (p. 51) – benché successivamente si sia voluta dimenticare questa origine riferendo il colore non al duca ma al vino della città francese, che peraltro acquista la sua prominenza europea proprio grazie ai festeggiamenti per la nascita del duca Enrico. La Francia intera si quota per una pubblica sottoscrizione che acquista e offre al piccolo Enrico nel 1821 il castello di Chambord, da cui deriva il titolo – che lo accompagnerà per tutta la vita – di conte di Chambord.
Il re Carlo X e gli zii, i duchi di Angoulême, adorano il piccolo Enrico, che riceve la migliore educazione nella religione, nelle scienze, nelle lettere, nella scherma, nel tiro, nell’equitazione. Sia Carlo X sia la madre del principe, la duchessa di Berry, derivano dagli avvenimenti che hanno personalmente vissuto – in Francia come a Napoli – un odio per la Rivoluzione, cui non si accompagna però, a differenza di quanto avverrà poi per Enrico V, una capacità di pensare a fondo le cause e le conseguenze del processo rivoluzionario. Il 25 luglio 1830 Carlo X cerca di reagire ai progressi dello spirito rivoluzionario in Francia con una serie di ordinanze che sciolgono le Camere e sospendono la libertà di stampa. Se le ordinanze entusiasmano la duchessa di Berry, offrono anche l’occasione alle logge massoniche e al partito orleanista per scatenare a Parigi una rivolta di piazza – la «rivoluzione di luglio» del 27-29 luglio 1830.
Ingannato da cortigiani che ingigantiscono la dimensione delle forze su cui può contare la Rivoluzione e restio (come lo era stato a suo tempo il fratello Luigi XVI) a ordinare un intervento militare che farebbe scorrere per ordine del re di Francia il sangue di francesi, Carlo X s’induce ad abdicare. Dal momento che subito dopo anche il duca d’Angoulême (che diventa quindi, ma solo per qualche minuto, Luigi XIX) rinuncia ai suoi diritti sul trono, il nuovo re è il piccolo Enrico V, mentre in uno sforzo di conciliazione Carlo X nomina «luogotenente generale del Regno» Luigi Filippo d’Orléans (1773-1850), figlio di «Philippe Egalité» e capo del partito orleanista. Ma non è quello che vogliono gli orleanisti, che fanno proclamare Luigi Filippo re non della Francia,ma «dei francesi», e re non «in quanto Borbone» ma «benché Borbone» (p. 99).
Si discute, nota Montplaisir, se la comparsa in Parlamento della duchessa di Berry con il popolarissimo Enrico V sulle ginocchia non avrebbe potuto rovesciare il corso degli eventi. Ma Carlo X non vuole una prova di forza, e se ne va in esilio con la famiglia percorrendo peraltro le strade che lo portano al porto di Cherbourg, da cui deve imbarcarsi, con studiata lentezza, tra popolazioni che spesso lo acclamano e si entusiasmano per Enrico V. Alla fine, tuttavia, i reali s’imbarcano per l’esilio britannico nei castelli prima di Lulworth, nel Dorset, e poi di Holyrood, a Edimburgo, quest’ultimo legato alle memorie e alla tragedia di Maria Stuarda (1542-1587).
Mentre l’educazione di Enrico V prosegue in castelli che il principe trova troppo freddi e troppo britannici, la duchessa di Berry non si rassegna a quella che considera, con buone ragioni, un’usurpazione. Nella notte tra il 28 e il 29 aprile 1832 sbarca in Francia, dove spera di risollevare la Vandea – che già si era levata in armi contro la Rivoluzione francese – per rovesciare Luigi Filippo. Mal preparata e non sostenuta dalle potenze europee – tranne che, discretamente, dal Papa Gregorio XVI (1765-1846) che la duchessa aveva visitato a Roma nel 1831 – l’insurrezione fallisce. La polizia di Luigi Filippo non riesce però a trovare e ad arrestare la duchessa, che proprio sfuggendo ripetutamente ai tentativi di cattura costruisce la sua fama e leggenda di eroina romantica. Alla fine è tradita da Simon Deutz (1802-1844), figlio del Gran Rabbino di Francia Emmanuel Deutz (1763-1842) che – così come il cognato, l’erudito e cabalista David-Paul Drach (1791-1868) – si era convertito al cattolicesimo, ed era stato raccomandato alla duchessa personalmente dal Papa. Deutz, nominato dalla duchessa suo agente generale, la vende alla polizia di Luigi Filippo diretta in qualità di Ministro dell’Interno dal futuro presidente del Consiglio e presidente della Repubblica Francese Adolphe Thiers (1797-1877). L’8 novembre 1832 la duchessa di Berry è arrestata a Nantes.
Togliendo dall’imbarazzo Luigi Filippo – che liberandola si mostrerebbe debole, e facendola giustiziare il degno erede del padre che aveva partecipato alla condanna a morte di Luigi XVI – la duchessa si dichiara incinta. Gli orleanisti utilizzano la gravidanza per screditare la duchessa, accusata di rapporti immorali con l’uno o l’altro dei nobili vandeani che l’avevano seguita nella rivolta, e la stessa causa legittimista. La dichiarazione della duchessa secondo cui non si tratta del frutto di una relazione illecita ma del matrimonio contratto a Roma con il conte Ettore Carlo Lucchesi-Palli (1806-1864), figlio del viceré della Sicilia, tenuto segreto perché un nuovo matrimonio avrebbe potuto smorzare qualche entusiasmo legittimista, è liquidata come un po’ troppo comoda.
Montplaisir, che si era già occupato della questione, riferisce tuttavia come nel 2007 dagli archivi del Vicariato di Roma sia emersa la certificazione definitiva e inconfutabile del matrimonio tra il conte Lucchesi-Palli e la duchessa di Berry, celebrato il 14 dicembre 1831, dunque ben più di nove mesi prima della nascita nel 1833 della piccola Anna Maria, che peraltro vivrà soltanto qualche ora. Ma il documento non è conosciuto nel 1832, e la propaganda orleanista riesce a screditare la duchessa nell’ambito della sua stessa famiglia, anche se il fascino di un’eroina che sa combattere e sparare come un uomo non viene meno nel popolo legittimista in Francia e in tutta l’Europa.
Nel frattempo il ragazzo Enrico si è trasferito con la famiglia nell’Impero Austro-Ungarico, dove rimarrà per il resto della sua vita, e ha preso residenza nel castello reale di Praga, all’epoca il più grande castello del mondo. Per ragioni religiose e politiche Enrico V – come Carlo X – apprezzerà sempre l’Impero Austro-Ungarico ben più della monarchia britannica, vi troverà generosa ospitalità e avrà un rapporto di vera amicizia con alcuni membri della famiglia imperiale, compreso – più tardi – l’imperatore Francesco Giuseppe I (1830-1916). Molti storici pensano che al contrario i governi austriaci , in particolare il potente principe Klemens von Metternich (1773-1859), abbiano visto con scarso favore la restaurazione di una monarchia tradizionale, popolare e potente in Francia, e non l’abbiamo mai veramente favorita.
La notizia del secondo matrimonio della madre è data con cautela e ritardo al piccolo principe dal nonno Carlo X, che non lo perdonerà mai alla duchessa di Berry. Enrico V, al contrario, svilupperà una graduale amicizia con il patrigno Lucchesi-Palli, s’intratterrà volentieri con lui degli affari italiani e provvederà generosamente alle tre figlie e al figlio che la madre darà al nobile napoletano. Carlo X si occupa ampiamente, negli ultimi anni della sua vita, dell’educazione del nipote. Se non mancano le polemiche alimentate da ambienti orleanisti, che accusano questa educazione di clericalismo e criticano la presenza di padri gesuiti, è difficile non riconoscere gli sforzi di Carlo X per dare all’adolescente Enrico il meglio dell’istruzione del tempo. Per la matematica, per esempio, fa venire Augustin-Louis Cauchy (1789-1857), certo cattolico fervente e monarchico ma nello stesso tempo una delle glorie della scienza matematica francese.
Nel 1833 Enrico V ha tredici anni, la maggiore età per i re francesi. I legittimisti lo festeggiano a Praga, che la famiglia reale francese dovrà peraltro lasciare a breve. Il nuovo imperatore d’Austria, Ferdinando I (1793-1875), vuole ribadire i suoi diritti di re di Boemia occupando personalmente il castello di Praga. Quelli che la stampa austriaca chiama i «tre re» – Carlo X, Luigi XIX ed Enrico V – si trasferiscono nel 1836 nel grazioso castello di Gorizia. Qui, il 6 novembre 1836, muore Carlo X, pianto dall’affezionatissimo nipote. Era stato un re di cui si erano potute mettere in dubbio le capacità politiche, non la profonda fede cattolica né il sincero attaccamento alla causa della Francia e della Chiesa. Per sua volontà, è sepolto nella cripta del convento francescano di Castagnevizza, che oggi si trova in Slovenia, a Nova Gorica, seppure a pochi metri dal confine italiano. Nel 1845 Enrico V trasferirà la sua residenza principale a Frohsdorf, ma rimarrà sempre legato sia a Gorizia sia ai francescani di Castagnevizza.
L’educazione di EnricoV si completa sotto la vigilanza dello zio, il duca di Angoulême, che per i legittimisti è Luigi XIX. Tra l’ottobre 1839 e il gennaio 1840 il diciannovenne principe soggiorna a Roma, accolto da Papa Gregorio XVI come un autentico re di Francia. Si tratta di una vera e propria consacrazione: da un certo punto di vista, «Roma ha sostituito Reims» (p. 141), sede tradizionale dell’incoronazione dei re di Francia, e la consonanza d’idee fra il principe e il Papa appare piena e profonda. Enrico visita anche la terra d’origine dei suoi avi materni, Napoli, e comincia a pensare a un programma politico. Nel 1841 una caduta da cavallo lo lascia lievemente claudicante: un fastidio che durerà tutta la vita (per una singolare coincidenza un anno dopo, in un incidente analogo, muore Ferdinando d’Orléans, 1810-1842, figlio primogenito del «re dei francesi» Luigi Filippo).
Nel 1843 Enrico V affitta un palazzo a Belgrave Square, a Londra, dove riceve i sostenitori francesi e lancia un appello alla restaurazione della dinastia legittima. Fra coloro che hanno lavorato all’appello di Belgrave Square c’è lo scrittore visconte François-René de Chateaubriand (1768-1848), legato a Enrico V da una sincera devozione ma che emerge dalle pagine di Montplaisir nel ruolo ambiguo di un monarchico romantico, sempre pessimista sull’esito finale delle cause per cui pure si batte e cultore spesso più della bellezza estetica del gesto – tanto più bello, si direbbe, quanto più si è certi che la battaglia è perduta – che del suo esito sociale e politico.
Enrico V diventa capo indiscusso della casa reale legittima di Francia – tra i cui sostenitori non mancava chi metteva in dubbio la validità delle abdicazioni di Carlo X e di Luigi XIX nel 1830 – dalla morte del duca di Angoulême, sopravvenuta nel 1843 (anch’egli è sepolto nel convento di Castagnevizza). Al duca sopravvive fino al 1851 la moglie Maria Teresa, che – come si è accennato – era la figlia di Luigi XVI, incarcerata con il fratello Luigi XVII (1785-1795) nella prigione del Tempio, cui era quasi miracolosamente sopravvissuta. Gli ultimi anni della sua vita sono turbati dagli scontri con i «naundorfisti», cioè con coloro che credono alla pretesa dell'avventuriero Louis Naundorff (1785-1845) di essere Luigi XVII, che non sarebbe morto al Tempio nel 1795. La sorella rifiuta di riconoscere in Naundorff – sostenuto anche da un certo numero di cattolici, che vedono in rivelazioni private, riconosciute e non dalla Chiesa, oscuri accenni alla sopravvivenza di Luigi XVII – il fratello perduto da tanti anni. Ne seguono polemiche e anche processi nei tribunali. Dopo la morte della zia Maria Teresa, Enrico V dirà a un naundorfista: «Non dimenticherò mai che avete avvelenato gli ultimi mesi di vita di mia zia con la vostra favola assurda di Luigi XVI e con il vile impostore che avete voluto fargli riconoscere come suo fratello. Avete turbato l’anima di una santa perfino nella sua agonia» (p. 262).
Dopo la morte di Carlo X e Luigi XIX, Enrico V può frequentare più liberamente la madre, i cui rapporti con il nonno e lo zio – dopo il secondo matrimonio – erano rimasti problematici, che lo invita spesso a Venezia, città che ama particolarmente e dove soggiorna spesso. Con la duchessa di Berry, Enrico V frequenta le famiglie reali degli Stati pre-unitari italiani. Sembra che s’invaghisca della bella figlia del duca di Modena Francesco IV (1779-1846), Maria Beatrice (1824-1906). Ma questa gli confessa che è promessa a Juan Carlos di Borbone (1822-1887), cugino di Enrico V e pretendente al trono di Spagna secondo la posizione dinastica detta carlista, che sposerà nel 1847. Le attenzioni del principe francese si spostano allora sulla sorella di Maria Beatrice, Maria Teresa (1817-1886), che sembra una «seconda scelta», dal momento che le difficoltà della sua nascita hanno reso la sua figura sgraziata e sproporzionata.
Enrico V la sposa nel 1846, e il matrimonio è alle origini di molte maldicenze. Si dirà che Maria Teresa, preoccupata per la sua scarsa avvenenza, non ci tenga a diventare regina. E quando sarà chiaro che la principessa non può avere figli, si vedrà nella sua scelta come sposa di Enrico V una manovra di Metternich perché la linea diretta di discendenza dei Borboni di Francia si estingua con il figlio della duchessa di Berry. Calunnie: perché la scienza medica del tempo non era in grado di prevedere la sterilità, mentre è certo che il matrimonio fu – da tutti i punti di vista, tranne quello della progenie – straordinariamente felice. Maria Teresa seppe compensare con l’intelligenza e la pietà una mancanza di avvenenza che non era del resto un unicum fra le principesse del tempo.
Sposato, e con una incipiente consapevolezza della difficoltà di avere un erede (per cui moltiplica le preghiere e le novene, che non avranno esito), Enrico V assiste agli avvenimenti del 1848 in Europa. Scrive che «il solo ostacolo all’instaurazione di una saggia e vera libertà» che assicuri i diritti dei corpi intermedi, la liberazione da tasse eccessive e ingiuste, un’autentica partecipazione di tutti alla vita politica e la decentralizzazione è in realtà «lo spirito rivoluzionario» (p. 224). Ma il 1848, se determina la caduta di Luigi Filippo, lancia l’astro di Luigi Napoleone (1808-1873), nipote di Napoleone I Bonaparte (1769-1821), che diventa presidente della Repubblica Francese prima di farsi riconoscere nel 1852 come l’imperatore Napoleone III.
Con una politica che – se da una parte non manca di celebrare Napoleone I – dall’altra rassicura con il suo conservatorismo le classi agiate, la nobiltà e anche non pochi vescovi, Napoleone III porta dalla sua parte un buon numero di ex legittimisti. Di fronte al consenso di cui per diversi anni gode Napoleone III, i legittimisti comprendono che la loro debolezza deriva in buona parte dalle loro divisioni. Più che Napoleone III i sostenitori di Enrico V sono impegnati a combattere gli orleanisti, e viceversa. La morte in esilio di Luigi Filippo, nel 1850, apre la possibilità di una riconciliazione. È il movimento detto «fusionismo», un’espressione che sarà ripresa nel secolo XX negli Stati Uniti per indicare la collaborazione fra correnti di destra di diverso orientamento ideologico ma che nasce in Francia negli anni 1850.
L’idea del «fusionismo» come unico strumento per far cadere Napoleone III e sostituirgli una «monarchia tradizionale» è lanciata per la prima volta nel 1852 dal teorico della Contro-Rivoluzione marchese Juan Donoso Cortés de Valdemagas (1809-1853), all’epoca ambasciatore spagnolo a Parigi, il quale invoca «la riconciliazione franca, sincera, generosa di tutti i membri della famiglia reale con il suo capo legittimo» (p. 284), cioè con Enrico V. La saga del «fusionismo» che inizia nel 1852, fra passi avanti e passi indietro, non si concluderà mai veramente con esito positivo. Con atteggiamenti diversi, i quattro figli maschi superstiti di Luigi Filippo (il primo, si ricorderà, era morto cadendo da cavallo nel 1842) si mostrano di tanto in tanto disponibili a riconoscere in Enrico V il legittimo re di Francia. Ma non a condividerne le idee e il programma contro-rivoluzionario, in quanto figli di quel Luigi Filippo che nel suo testamento aveva chiesto a chi fosse stato il suo erede di essere «servitore appassionato ed esclusivo della Francia e della Rivoluzione» (p. 295).
Nonostante gl’insuccessi del «fusionismo», Napoleone III cade comunque: non per opera dei monarchici ma per la sciagurata avventura militare della guerra franco-prussiana del 1870, sfociata in una disastrosa sconfitta e nella deposizione dell’imperatore, con la proclamazione della Repubblica, la rivolta sociale della Comune di Parigi e la sua durissima e sanguinosa repressione. Le elezioni del 1871 portano nel Parlamento francese una maggioranza monarchica. Il ritorno alla monarchia – e a Enrico V – sembra a tutti inevitabile. Il nuovo Parlamento abroga le disposizioni sull’esilio dei Borboni: dopo quarant’anni, il conte di Chambord torna in Francia. Ma gli uomini politici repubblicani prendono tempo. Thiers – l’antico persecutore della duchessa di Berry – governa con il titolo di «capo dello Stato» dal 1871 al 1873. L’eroe della guerra franco-prussiana, il maresciallo duca Patrice de Mac-Mahon (1808-1893) – che si dichiara monarchico, ma che ha un ruolo ambiguo – gli succede con lo stesso titolo dal 1873 al 1875, quando diventa presidente della Repubblica.
Molti pensano a manovre parlamentari intese a determinare come e con quali uomini regnerà Enrico V. Ma la proclamazione della monarchia tarda: ancora una volta,il «fusionismo» fallisce, orleanisti e sostenitori di Enrico V non riescono a mettersi d’accordo. In una serie di manifesti famosi – di cui anche gli avversari ammirano il tono, che sa elevarsi al di sopra delle divisioni politiche e delle beghe parlamentari – Enrico V annuncia un vasto programma di restaurazione delle istituzioni, e insiste su un segnale di discontinuità rispetto allo spirito rivoluzionario: la bandiera tricolore alla cui ombra sono stati ghigliottinati gli antenati del re e che si è levata per sostenere tutti gli usurpatori dovrà essere sostituita dalla tradizionale bandiera bianca dei Borboni. Si tratta di una questione su cui sono stati scritti decine di volumi. La vulgata su Enrico V lo presenta come un personaggio paradossale, la cui ostinazione su una questione meramente simbolica – la bandiera – impedisce una restaurazione monarchica per cui esiste una salda maggioranza parlamentare, consegnando per sempre la Francia alla Repubblica. Nel migliore dei casi, Enrico V è presentato come un romantico attaccato ai simboli e incapace di dare prova, quando sarebbe necessario, di un sano realismo. Nel peggiore, si afferma che il principe – e la sua consorte – almeno inconsciamente non vogliano davvero regnare.
Ma è veramente così? L’opera di Montplaisir fa giustizia di molti miti. Enrico V si è preparato per tutta la vita a regnare, non ha mai rinunciato ai suoi diritti né abdicato, e salire sul trono dei suoi avi è sempre rimasto lo scopo della sua azione e il suo più profondo desiderio. Ma non a ogni costo. Enrico V non è disponibile a essere il re di una qualunque monarchia, o peggio di una repubblica coronata. Vuole il ritorno di una monarchia tradizionale, cattolica, decentralizzata dove il re regni e governi sulla solida base delle libertà pubbliche e dei diritti dei corpi intermedi. Non è interessato a mettere il suo cappello su una costituzione che sostanzialmente conservi lo spirito della Rivoluzione. La questione della bandiera non può essere considerata da sola, come forse fa da Roma il Papa Beato Pio IX (1792-1878), il quale fa sapere a Enrico V, per cui pure ha grande stima, che l’accettazione del tricolore non dev’essere considerata come moralmente illecita, e che la Santa Sede ritiene prioritario il bene della restaurazione di una monarchia cattolica in Francia (p. 479).
Al Pontefice risponde rispettosamente ma fermamente monsignor Pie (che, forse anche a causa di questo episodio, riceverà la sua attesa berretta di cardinale solo dal successore del Beato Pio IX, Leone XIII, 1810-1903) che «la bandiera tricolore, in quanto bandiera semplicemente politica, è irrimediabilmente rivoluzionaria (…). Per i principi Borbone, che siano della branca principale o cadetta, produrrà di nuovo quanto ha prodotto nel 1830 e non ha potuto evitare nel 1848 (…). Da parte mia penso che nessuno ha il diritto di esigere dal re, per quanto rassegnato egli sia a qualunque sacrificio per farci uscire dall’abisso, che si getti in una corrente dove è certo di annegare insieme a noi. È chiedere troppo al salvatore domandargli di legarsi al collo la stessa pietra che ha già trascinato in fondo all’acqua i migliori nuotatori» (pp. 475-476).
Nel 1880 – ritornando sugli avvenimenti del decennio precedente – Enrico V riassumerà così la sua posizione: «Mi si è talora rimproverato di non voler regnare e di aver lasciato passare accanto a me l’occasione di tornare sul trono. Ci si è radicalmente sbagliati, ditelo ad alta voce. La mia ambizione è la monarchia come un deposito sacro, come un dovere: mai come un’avventura! (…) Il re di Francia deve tornare come un buon pastore tra le sue pecore, o restare in esilio. Se non dovessi tornare, la Provvidenza terrà conto del mio dovere compiuto verso il popolo francese e dell’onestà delle mie intenzioni. In mezzo alle ignominie di questo secolo, è bene che la vita e la politica di un re in esilio si distinguano per il loro carattere limpido e leale. Mi citerete il proverbio “Aiutati che Dio ti aiuta”. Lo conosco, ma non mi fa dimenticare che la Provvidenza ci viene in aiuto quando e come meno ce lo aspettiamo. Credo nella politica di Dio, e nessuno riuscirà a sradicare questa fede dal mio cuore. È meglio non regnare che essere un re svilito e dimezzato. La questione della bandiera ha avuto diverse fasi, dal 1849 a oggi. Non l’ho creata io. È un pretesto, un espediente di cui rifiuto la responsabilità di fronte a Dio e alla storia» (pp. 577-578).
Ultimamente la questione della bandiera è il riassunto di molte altre. C’è una maggioranza al Parlamento francese per la monarchia, non ce n’è una per una monarchia tradizionale e contro-rivoluzionaria. Per questo, il 21 novembre 1873, Enrico V riprende – stavolta per sempre – la via dell’esilio. Ma rimane un quesito: il Parlamento rappresenta davvero il Paese? I tumulti in numerose località di provincia contro parlamentari eletti per riportare sul trono Enrico V che hanno finito per votare la Repubblica convincono molti nella cerchia del sovrano che il Parlamento non rappresenta il Paese, e che quanto non è stato ottenuto con un voto dell’Assemblea va perseguito attraverso la via del colpo di Stato, che godrà d’immediato e sicuro consenso popolare.
A questa via, per ragioni morali e politiche, Enrico V inizialmente si oppone. La coltiverà fra il 1879 e il 1881, con modalità che ci sono in parte ignote perché – dopo il fallimento dell’iniziativa – il principe farà distruggere numerosi documenti, allo scopo di non compromettere i suoi collaboratori e seguaci. Si sa che nel progetto gioca un ruolo il sociologo e pensatore contro-rivoluzionario René de La Tour du Pin (1834-1924), divenuto ascoltato consigliere di Enrico V, e che il cardinale Pie lo approva. Il principe ha cambiato idea di fronte alla politica anticlericale della Terza Repubblica. Se non considera lecita l’avventura del colpo di Stato, con tutti i suoi rischi, per difendere la legittimità e la monarchia, Enrico V è disponibile a prenderla in considerazione quando sono in gioco la fede e la libertà della Chiesa. Ma non senza condizioni. Non deve trattarsi di un progetto azzardato: «questo lo potrebbe osare un Bonaparte. Ma non ha nelle vene il sangue di cinquanta generazioni di re. Non si chiama Francia» (p. 577). Le condizioni per un progetto serio non ci sono. Enrico V rinuncia.
All’alba del decennio 1880 ormai è chiaro che, salvo miracoli, Enrico V non è destinato a regnare. Ma rimane un punto di riferimento per i cattolici contro-rivoluzionari di tutta l’Europa. Sempre di più attraverso gli scritti, i manifesti, le interviste il principe espone un programma completo di restaurazione che va al di là della Francia. Il progetto parte dalla monarchia tradizionale, diversa tanto dalla repubblica coronata orleanista quanto dalla monarchia assoluta. Enrico V non propone di tornare al 1788: l’anno dopo sarà, inesorabilmente, il 1789. Denuncia anzi il centralismo e lo statalismo dell’ultimo Ancien Régime, cui oppone una severa difesa delle libertà dei corpi intermedi: le province, le città, le corporazioni, le professioni. Come l’amico La Tour du Pin, Enrico V ha simpatia per le rivendicazioni degli Stati Provinciali del 1788 cui la Rivoluzione ultimamente non ha dato alcuna risposta soddisfacente.
Nello stesso tempo, le sue idee sulla decentralizzazione – che pure invitano a non imitare passivamente modelli che si radicano in una storia molto diversa da quella francese, dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti – appaiono sorprendentemente attuali, e rispondono a preoccupazioni ed esigenze che sono vive ancora oggi. Il principe non esclude neppure il suffragio universale per un’assemblea elettiva destinata ad affiancare il monarca. Pensa a un suffragio universale «onestamente praticato» (p. 354), senza limiti censitari che privilegino i soli ricchi ma con possibili correzioni che premino con voti aggiuntivi legati al numero dei figli le famiglie numerose. Enrico V pensa anche di affiancare a una camera bassa eletta a suffragio universale una camera alta che rappresenti le regioni e le professioni.
Soprattutto, in aperto contrasto con lo stretto legame intrattenuto dalla monarchia orleanista, da Napoleone III e dalla Terza Repubblica con i «poteri forti» rappresentati dai banchieri e dalle nascenti oligarchie industriali e finanziarie, Enrico V sostiene le idee dei «monarchici sociali»come La Tour du Pin e il conte Albert de Mun (1841-1914), affrontando con idee coraggiose e innovative i problemi degli agricoltori e degli operai, con la Lettera sugli operai del 1865 e la Lettera sull’agricoltura del 1866. La prima anticipa in modo significativo l’enciclica Rerum novarum che Leone XIII pubblicherà nel 1891, e nella cui preparazione avrà a sua volta un ruolo La Tour du Pin. Rispetto alle posizioni orleaniste, bonapartiste e anche di molti repubblicani c’è nella Lettera sugli operai del principe un «progresso spettacolare» (p. 379): pur lodando molti imprenditori francesi, che «non hanno affatto abusato delle loro posizioni e hanno spesso contribuito in modo determinante alla creazione di un embrione di sistema di protezione sociale in nome della carità cristiana» (ibidem), Enrico V prospetta un ampio riconoscimento del diritto di associazione, e un ruolo non solo per le associazioni miste d’imprenditori e operai ma anche per i sindacati composti dai soli lavoratori.
E nella Lettera sull’agricoltura, dove affronta con grande competenza i problemi specifici alle diverse coltivazioni, il principe illustra come il libero commercio e la riduzione troppo rapida delle tariffe doganali internazionali siano state promosse nell’esclusivo interesse di alcune industrie, trascurando le legittime esigenze degli agricoltori francesi – ancora una problematica che, come si può facilmente vedere, è attuale ancora oggi. Questi testi aiutano a superare l’equivoco secondo cui anche dal punto di vista sociale nel secolo XIX i repubblicani sarebbero sempre e necessariamente «progressisti» e i legittimisti «conservatori». Enrico V spiega e dimostra che è precisamente il contrario: solo una monarchia cattolica è veramente attenta alle esigenze della persona, solo una monarchia tradizionale e forte può permettersi di riconoscere i diritti dei lavoratori senza che si scatenino le forze dell’anarchia e del socialismo di cui l’Europa dopo la Comune ha tanta paura.
Al primo posto tra le preoccupazioni di Enrico V stanno i diritti della Chiesa – minacciati dalla marea montante dell’anticlericalismo – e della famiglia. La lotta contro il divorzio e quella per la libertà di educazione ritornano in numerosi scritti del principe. La monarchia che intende restaurare è tradizionale perché è cattolica: i re non sono che «sergenti di Dio» (p. 357) e suoi luogotenenti per l’amministrazione delle nazioni. «Bisogna tornare al vero principio. La Chiesa Cattolica non è solo una religione. È anche una società, divinamente fondata dallo stesso Gesù Cristo per chiamare tutti gli uomini alla partecipazione ai beni spirituali, presenti e futuri, di cui Dio l’ha dotata» (p. 309).
S’inganna, però – quando non è in mala fede –, la polemica che vede in Enrico V un clericale incapace di riconoscere la giusta autonomia della politica. Al contrario, il principe scrive che «politicamente parlando, ne so più del Papa e non sono tenuto a chiedere la sua opinione né il suo consiglio su questioni tecniche che conosco meglio di lui (…). Se crediamo alle grazie date da Dio ai capi di Stato che si sforzano di marciare nella Sua via e di praticare e proteggere il Suo culto, dobbiamo anche credere che conceda loro dei lumi per guidare i popoli che ha affidato alla loro direzione» (p. 310).
Certo, la politica di Enrico V è sostenuta da un’intensa vita spirituale, che condivide con la moglie Maria Teresa. Con rare eccezioni legate ai viaggi – fra cui insiste per compiere il disagevole pellegrinaggio in Terra Santa – Enrico V resta fedele alla Messa quotidiana, ascoltata anzi due volte nei giorni di festa, alla confessione e alla comunione frequenti, e a numerose pratiche di pietà e letture devote. Molti che lo incontrano – anche fra gli oppositori politici – hanno l’impressione di trovarsi di fronte a un santo, ancorché non si tratti di un bigotto ma di un gentiluomo che apprezza pure i piaceri della caccia, della musica, dell’arte e della buona tavola. Da altri piaceri – contrari alla morale – il principe sa invece astenersi, il che non è scontato fra le teste coronate del tempo. A differenza del padre, piuttosto libertino, nessuna voce di relazioni illecite o di figli illegittimi sfiora la reputazione di Enrico V.
La vita di preghiera s’intensifica negli ultimi anni di vita, segnati da persistenti e dolorosissimi mal di stomaco. C’è chi li attribuisce alla severa dieta in cui il principe – che era arrivato a pesare 110 chili – ne ha persi trenta in un anno, seguendo i consigli di medici che all’epoca cominciamo appena a occuparsi di dietologia. Luminari accorsi dalla Francia per esaminare una malattia che preoccupa tutte le case regnanti europee parlano di un cancro allo stomaco. Senza trascurare i soccorsi della medicina, Enrico V convoca a Frohsdorf un suo corrispondente torinese in cui ripone da anni la più grande fiducia: San Giovanni Bosco (1815-1888). Don Bosco arriva a Frohsdorf il 13 luglio 1883, mentre i medici danno il principe per morente e in molte chiese di Francia e d’Europa si tengono veglie di preghiera per lui.
Si è nei giorni della festa di Sant’Enrico II Imperatore (973?-1024). Don Bosco invita a pregarlo e il principe si sente completamente guarito. Nei giorni successivi si rimette e può perfino riprendere ad andare a caccia, fra lo stupore dei medici. Don Bosco torna a Torino, non senza avere messo in guardia i familiari del principe contro rischi legati a minacce diverse dalle malattie: «Diffidate dei massoni – raccomanda il santo –; il loro braccio è lungo. S’introducono e agiscono perfino nelle nostre case religiose (…)» (pp. 595-596).
Dopo quasi un mese di apparente buona salute, Enrico V ha una ricaduta il 10 agosto. Si rimette a letto e la sua condizione non fa che peggiorare. Dopo avere fatto i suoi addii a tutti i familiari, muore il 24 agosto 1883 assistito dalla moglie. La sua ultima parola è «Francia». La morte è stata naturale? I medici non ne sono sicuri, e suggeriscono un’autopsia: non per confermare le voci di avvelenamento – che causano turbative politiche sgradite in Francia a tutti i partiti – ma per escluderle. Maria Teresa rifiuta, ma i medici la convincono a fare imbalsamare il corpo del defunto, il che permette comunque un esame. Con loro grande sorpresa, del presunto cancro i dottori non trovano traccia. Si esclude la presenza di un veleno minerale o vegetale, e la morte è attribuita a profonde lacerazioni dello stomaco. Queste possono essere causate, ipotizzano i medici per rassicurare l’opinione pubblica, da «un osso rimasto nascosto nella carne» che il principe ha mangiato (p. 597).
Ma i luminari venuti da Parigi sono turbati, e riconoscono che ferite simili non sono consuete. Sarebbero assai più facilmente compatibili con un metodo di assassinio non ignoto alle cronache criminali del tempo: «polveri di vetro o di diamante mescolate agli alimenti» (ibidem) per un certo periodo di tempo. Che avesse avuto ragione Don Bosco? Gl’interessati a una prematura sparizione del principe non mancavano: la massoneria, certo, che vedeva in Enrico V il punto di riferimento politico della Contro-Rivoluzione europea, ma anche i partiti nemici di una restaurazione dei Borboni in Francia, e potenze straniere che da questa restaurazione avevano tutto da perdere.
Morto Enrico V, la cui statura morale e intellettuale è riconosciuta anche dalla stampa politicamente ostile, rimane la vedova, Maria Teresa, fedele custode della sua memoria, un impegno che riafferma simbolicamente trasferendosi a Gorizia per potersi recare ogni giorno sulla tomba del marito che è stato sepolto nel convento di Castagnevizza. Le sue posizioni politiche sono rarissime. Preferisce diffondere i documenti del defunto marito, far riordinare le sue carte e prepararsi alla morte – che sopraggiunge tre anni dopo quella di Enrico V, nel 1886 – attraverso la preghiera. Tuttavia, sostiene discretamente i legittimisti francesi. In questa chiave – smentendo diffuse leggende – Montplaisir mostra come non nasconda alcun mistero il piccolo sussidio inviato dalla principessa al parroco del paesino di Rennes-le-Château, don Berenger Saunière (1852-1917), a proposito del quale è nata una leggenda, che ne fa il detentore di misteriosi segreti, alle origini – fra l’altro – del discusso romanzo del 2003 dello scrittore statunitense Dan Brown Il Codice da Vinci. Saunière era uno dei tanti parroci privati del loro stipendio dalla Repubblica – in pendenza di un regime concordatario in cui i sacerdoti con cura di parrocchie erano sostenuti economicamente dallo Stato – per la dichiarata fedeltà a Enrico V. La principessa ne sosteneva molti, così come aiutava giornalisti e artisti legittimisti: il caso di don Saunière non ha dunque nulla di eccezionale, e non cela alcun mistero.
Di fatto, con Enrico V muore – anche se molti non se ne rendono subito conto – ogni seria possibilità di restaurare la monarchia in Francia. Il principe non ha discendenti diretti: le tristi polemiche al funerale su chi debba sedersi ai primi posti mostrano che il «fusionismo» tra Borboni del ramo principale e Orléans non ha fatto passi avanti. Montplaisir insiste sul fatto che Enrico V morendo non ha voluto lasciare alcuna indicazione sulla successione, nonostante quanto voci interessate sosterranno in seguito. Per il principe non spetta ai re di Francia designare i loro successori, ma alla legge dinastica. L’interpretazione di questa legge però non è chiara. La maggioranza dei monarchici francesi riconosce – con maggiore o minore entusiasmo – che l’estinzione del ramo principale dei Borboni con Enrico V fa passare i diritti al ramo cadetto degli Orléans, dunque al conte di Parigi Filippo d’Orléans (1838-1894) e ai suoi discendenti. I sostenitori di questa successione sono detti «bianchi d’Eu», dal nome del castello normanno degli Orléans.
A loro si contrappongono i «bianchi di Spagna», membri del nucleo più fedele alle idee di Enrico V (discretamente sostenuti dalla sua vedova), i quali pensano che la successione spetti ai discendenti del più giovane dei due figli del «Gran Delfino» Luigi (1661-1711), figlio del re Luigi XIV (1638-1715) – il cui primogenito, Luigi duca di Borgogna (1682-1712), padre del re Luigi XV (1710-1774), è alle origini del ramo che termina con Enrico V –, cioè al re di Spagna Filippo V (1683-1746). La rinuncia al trono di Francia di Filippo V con i Trattati di Utrecht del 1713 è interpretata dai «bianchi di Spagna» come rinuncia alla fusione delle corone di Spagna e di Francia in un’unica corona e in un unico Stato, non invece come rinuncia alla successione francese per quei discendenti di Filippo V che non siano re di Spagna. Questi discendenti, al momento della morte di Enrico V, sono i pretendenti detti «carlisti» alla corona di Spagna, rappresentati dal cognato di Enrico V, Juan Carlos di Borbone, e dai suoi discendenti.
Dietro le complesse questioni di diritto dinastico, per i «bianchi di Spagna» la scelta carlista ha una valenza dottrinale, dal momento che le idee carliste e quelle di Enrico V fanno comune riferimento alla Contro-Rivoluzione, mentre gli Orléans si considerano eredi dell’adesione di «Philippe Egalité» e di Luigi Filippo alle idee rivoluzionarie. Ancora ai giorni nostri «bianchi di Spagna» – che considerano legittimo erede al trono di Francia il principe Luigi Alfonso di Borbone, nato nel 1974, «Luigi XX» – e «bianchi d’Eu», il cui candidato è il conte di Parigi Enrico d’Orléans, nato nel 1933, rimangono divisi. Tristemente, si sono occasionalmente affrontati anche nei tribunali per questioni di nomi e di titoli (mentre rimangono in Francia anche piccoli gruppi di monarchici naundorfisti e di bonapartisti fedeli agli eredi di Napoleone III).
La questione, dunque, turba il movimento monarchico francese fino ai giorni nostri. Certamente, la mancanza di un candidato al trono insieme cattolico, fedele alla dottrina sociale della Chiesa e suscettibile di radunare un vasto consenso gioca un ruolo nelle scelte della Santa Sede che determinano due grandi spaccature nel mondo cattolico francese, e due traumi i cui effetti si fanno sentire ancora oggi. La prima è il ralliement (“adesione”), cioè l’accettazione in linea di principio della Repubblica Francese voluta da Leone XIII e consacrata dall’enciclica Au milieu des sollicitudes del 1892. La seconda è la decisione di Papa Pio XI (1857-1939) di rendere pubblica nel 1926 la condanna dell’Action Française, il movimento monarchico francese fondato e guidato dal non cattolico Charles Maurras (1868-1952), che il Sant’Uffizio aveva pronunciato nel 1914 con un decreto che San Pio X (1835-1914) aveva confermato ma aveva ordinato di non pubblicare per ragioni di opportunità.
L’atteggiamento sul ralliement prima e sull’Action Française poi dividerà gli stessi fedeli di Enrico V: La Tour du Pin si opporrà al ralliement, Mun vi aderirà (dopo che entrambi, senza entusiasmo, avevano ritenuto che la legge dinastica francese desse ragione ai «bianchi d’Eu»), determinando la spaccatura del movimento monarchico sociale. Né sarà maggioritario il sostegno dei superstiti amici di Enrico V a Maurras, sia per ragioni religiose – con obiezioni simili a quelle di Pio XI – sia perché il fondatore dell’Action Française, sia pure in chiave «fusionista» e senza aderire alle tradizionali idee orleaniste, riconoscerà le pretese della casa di Orléans.
Enrico V sarà evocato anche in occasione della terza crisi che dividerà i cattolici francesi di sensibilità tradizionale, quella relativa alla guerra d’Algeria del 1954-1962 e all’indipendenza della ex-colonia francese. Enrico V, infatti, si era occupato a lungo della questione algerina, raccomando che la presenza francese si accompagnasse a una diffusione della cultura e della religione cattolica, auspicando che in Algeria come altrove si operasse perché «la croce rovesciasse la mezzaluna» (p. 370) islamica, di cui prevedeva profeticamente il risveglio e i rischi. Dal canto suo, il generale Charles de Gaulle (1890-1970) – la cui posizione finì per rivelarsi opposta a quella dei cattolici contro-rivoluzionari che rifiutavano la separazione dell’Algeria dalla Francia – si dichiarava ammiratore di Enrico V e si rammaricava del fatto che il suo progetto di restaurazione non avesse avuto successo. Secondo Montplaisir, il suo modello di repubblica presidenziale “prese a prestito molti elementi dallo chambordismo” (p. 631).
Nel dibattito che è seguito alla pubblicazione del testo di Montplaisir, l’autore ha rivendicato alla sua opera – rispetto alla vasta letteratura su Enrico V – il merito di avere chiarito tre questioni: l’onore della duchessa di Berry, che – benché il padre di un bambino sia, secondo la massima del diritto romano e prima dell’epoca degli esami del DNA, semper incertus – aveva con ogni probabilità concepito la bambina Anna Maria nata (e subito morta) nel 1833 nell’ambito di un legittimo matrimonio con il conte Lucchesi-Palli; la presunta rinuncia al trono da parte di Enrico V, un semplice mito diffuso dalla propaganda ostile; e la posizione del principe sulla sua successione: una posizione mai presa, e lasciata al diritto e alla Provvidenza.
Se su quest’ultimo punto si può prevedere che le polemiche dinastiche non si placheranno (lo stesso curatore del diario del principe, Delorme, a differenza di Montplaisir sostiene la successione orleanista) , la vera lezione della vita di Enrico V è un’altra, e vale per chiunque abbia oggi simpatia per una causa monarchica. Per tutta la sua esistenza, il conte di Chambord ha insistito sulla priorità del principio sul principe. Chi sia il principe è importante, ma non è essenziale; neppure –come dimostra la vicenda che trova il suo simbolo nella questione della bandiera – è essenziale, o è sufficiente, che sul trono vi sia un re. Una monarchia con un re «svilito e dimezzato» (p. 578) non serve. Anziché dividersi sulle questioni dinastiche, coloro che hanno a cuore la causa di una forma di Stato cattolica e contro-rivoluzionaria dovrebbero preoccuparsi anzitutto delle dottrine e dei contenuti. Nessuno lo ha detto meglio dello stesso Enrico V: alla Francia è necessario «que Dieu y rentre en maître pour que j’y puisse régner en roi» (p. 566) – «che Dio vi rientri come padrone perché io possa regnarvi come re». Una frase che, tenendo conto del diverso modo di esprimersi della lingua italiana, potrebbe anche essere tradotta – senza tradirla – facendo riferimento alla necessità che in Francia «anzitutto regni Dio perché vi possa regnare io».